Tra Arte e Letteratura.
Nei racconti mitici greco-romani è ricorrente la figura dell’eroina che, innamoratasi di uno straniero, lo aiuta in una difficile impresa, venendo in qualche modo meno ai doveri che la legano alla famiglia ed alla propria patria; quindi lo segue, spesso lontano, per poi esserne tradita e abbandonata.
All’interno dell’ambito latino possiamo rintracciare diversi tre famose eroine abbandonate: Didone, Medea e Arianna, donne accomunate dal fatto di aver amato moltissimo uomini che poi le hanno abbandonate.

Didone, regina di Cartagine, era innamorata dell’eroe Enea ed era totalmente succube del suo amore, preda del “furor”, la passione amorosa che l’aveva portata a pensare solo al suo rapporto con Enea e ad annullare se stessa sia come donna che come regina.
Ella non riesce a raggiungere la libertà da questo amore nemmeno con l’atto estremo del suicidio, perché nella maledizione che lancia all’eroe si augura di essergli vicino anche come “fantasma” per tormentarlo: nemmeno dopo la morte accetta di stare lontana dal suo amato.
Joseph Stallaert: La morte di Didone, 1872

Medea è l’eroina greca che, per amore di Giasone, accetta di abbandonare la sua terra ela sua famiglia e di accompagnarlo nelle sue peregrinazioni.
Anch’ella è talmente succube dell’amore per Giasone che, quando lui la lascia, uccide i suoi figli per vendetta, per non avere nulla che lo ricordasse e perché da sola ha paura di non riuscire a sopravvivere.
Medea (1866-1868), opera di Anthony Frederick Augustus Sandys.

Arianna, innamorata di Teseo.
Nel suo lamento di donna abbandonata afferma di essere disposta a seguire Teseo come schiava, e in virtù di questa condizione è disposta a prostrarsi ai suoi piedi, compiendo l’atto di umiliazione per eccellenza.
Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Naxos – quadro di Angelica Kauffman (1774)
Questi tre esempi di eroine antiche dimostrano come spesso le donne fossero preda del “furor”, ossia della passione amorosa che le portava ad annullarsi completamente e ad essere prigioniere del loro stesso amore.
La prima opera a noi pervenuta che ne richiami la tematica è il carme LXIV di Catullo, in cui il lamento di Arianna riecheggia i topoi che domineranno nei secoli la letteratura di questo genere: ovvero, la perfidia del seduttore spergiuro, la sua ingratitudine, la sua spietata insensibilità, lo smarrimento della donna indifesa in una terra deserta e facilmente destinata a cadere in pasto alle belve, invocazione della punizione degli dei, ecc.
Abbiamo poi Medea, tragedia di Seneca, che riprende la tragedia omonima del greco Euripide: Medea, dopo aver compiuto una serie di delitti e malefatte in nome dell’amore che la lega a Giasone, vede quest’ultimo abbandonarla per sposare un’altra donna. Ecco che la nostra eroina è agitata da sentimenti contrastanti, amore e odio nello stesso tempo, in un crescendo di follia fino al tragico epilogo della vicenda.
Le “Heroides” (il nome in origine dovette essere quello di “Epistulae heroidum”, “Lettere delle eroine”) sono 21 lettere d’amore in metro elegiaco, indirizzate da donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. Esse sono opera di Ovidio.
Le prime 14 sono lettere di eroine mitiche (Didone a Enea, Arianna a Teseo, Medea a Giasone), ovviamente eroine da inserirsi a pieno titolo nella tradizione delle donne abbandonate.
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Per quanto riguarda la Didone virgiliana, ella è la diretta discendente di Medea e Arianna: nelle sue parole possiamo notare gran parte dei motivi sopra elencati, fino alla maledizione lanciata contro i discendenti di Enea
Didone, marmo bianco attribuito a Christophe Cochet, Parigi, Musée du Louvre.
Tra le tante vittime d’amore della letteratura latina d’ogni tempo, Didone è tra le più umane e umanamente ricche, poiché è del tutto originale la perfetta coerenza con cui essa vive, dall’inizio alla fine della sua tragica vicenda, la propria duplice natura di donna appassionata e di regina. Si tratta dunque di una figura complessa, che ebbe nel tempo una fortuna enorme, basti pensare che sono almeno una trentina le opere liriche ispirate a questo soggetto.
Gli accenti sono diversi, rispondenti al temperamento delle tre eroine, ma gli argomenti usati sono gli stessi, come presente è in tutti e tre i casi il tentativo di trattenere l’innamorato, tentativo peraltro vano. Si possono rintracciare come elementi di rimprovero agli amanti da parte delle eroine:
– crudeltà e nascita da elementi naturali selvaggi
– abbandono e conseguente solitudine
-Come conclusione troviamo sempre la: maledizione che in Virgilio viene sviluppata nel secondo discorso ad Enea e nei versi 584- 629, quando, prima di morire, lancia una seconda maledizione contro l’eroe troiano.
L’invettiva di Didone

L‘incontro di Didone e Enea, di Nathaniel Dance-Holland
Virgilio mette di fronte le due figure contrastanti di Enea e Didone: la regina cartaginese viene raffigurata secondo il codice della poesia erotica, l’eroe troiano invece ubbidisce al codice epico. Inizialmente la regina spera ancora di piegare l’eroe; gli rimprovera il suo tradimento, ricorda la parola data, insistendo sulla propria sorte infelice, rimpiangendo la mancanza di un figlio. Cerca quasi di ricattare Enea per tenerlo ancora con se. Ma Enea, calmo e solenne, non fa alcuna concessione ai sentimenti: assicura la sua eterna gratitudine a Didone, ma nega di aver inteso il loro rapporto come matrimonio, lascia trasparire la sua nostalgia per la patria e le rimprovera di ostacolarlo.
Ecco che Didone, presa dalla disperazione, non gli chiede più di restare, ma travolta dall’ira lo accusa di feroce crudeltà e irride le motivazioni degli ordini divini, da lui addotte per la partenza. Infine lo maledice e minaccia di perseguitarlo, da morta, come una Furia. Didone è ora in preda a un tumulto di sentimenti di dolore e sdegno, e lascia affiorare per la prima volta l’idea del suicidio per vendetta. Dopo questo passo i due amanti non s’incontreranno più (se non negli inferi), ma seguiranno diversi destini: Enea tutto dedito ormai alla sua eroica missione, Didone sempre più in preda ad una disperazione che la condurrà alla morte.
“Tu non hai avuto come madre una dea, nè Dardano fu l’autore della stirpe,
o perfido,ma ti generò dalle dure rocce l’orrendo
Caucaso e ti allattarono le tigri dell’Ircania.
A che scopo,infatti, dissimulo o a quali affronti più gravi mi riservo?
Forse che gemette a causa del nostro pianto?Forse che battè le ciglia?
Forse che vinto scoppiò a piangere o provò misericordia per l’amante?
Quali offese dovrei anteporre a questa?Ormai la grandissima Giunone
E il padre Saturno non guardano queste cose con occhi giusti.
In nessun luogo c’è una fede sicura. Io accolsi quello gettato sul lido,
E pazza lo resi consapevole delle cose del regno,
salvai dalla morte la flotta dispersa e i compagni.”
(vv.365-375, l.IV)
La maledizione di Didone
All’alba Didone, dall’alto della rocca, scorge la flotta troiana che si allontana a vele spiegate. Colta dall’ira è decisa a inseguire i fuggitivi e a vendicarsi; poi si rende conto che ormai ogni vendetta è impossibile poiché sono già lontani. Tuttavia può invocare su Enea e sui suoi discendenti una maledizione divina: trovi l’eroe in Italia guerre e stragi, muoia prematuramente ma rimanga insepolto; i Cartaginesi conservino sempre un odio implacabile verso i discendenti dei Troiani e un giorno, dalle ceneri della regina, possa nascere un terribile vendicatore.
“O Giove” gridò, “lo straniero
potrà andarsene via così, sbeffeggiare così il mio regno?
E i miei non prenderanno le armi, non correranno tutti
dalla città, non trascineranno le navi dagli arsenali?
Oh, su, portate le fiamme, date armi, spingete sui remi!
Ma che dico, dove sono? Quale follia mi travolge?
Infelice Didone, è adesso che l’empietà ti tocca?
Allora doveva, quando eri tu che gli davi lo scettro!
Ecco la destra e la fede di chi reca i penati con sé,
di chi sulle spalle, dice, portò il padre sfinito dagli anni!
Perché non l’ho fatto a pezzi e non l’ho disperso nel mare?
Perché non ho trucidato i compagni o lo stesso Ascanio,
e non ne ho imbandito le membra sulla mensa paterna?
Ma era incerto l’esito; è vero, e lo fosse pur stato!
Chi dovevo temere se dovevo morire?Oh, avessi
Portato il fuoco nel campo, riempito di fiamme le navi,
uccisi il padre e il figlio, tutti e me stessa nel rogo! “
(vv.590-606, l.IV)
L’ultimo soliloquio di Didone
Il suicidio

Didone ha fatto innalzare un rogo all’interno della reggia per ardervi il letto coniugale e tutti gli oggetti donati da Enea, col pretesto di un rito magico che la liberi dall’amore, ma già intenzionata a morire. Manda allora la nutrice a chiamare Anna; quindi sale sul rogo, sul letto in cui aveva consumato la sua passione, e dopo strazianti parole di rimpianto, si getta sulla spada che Enea le aveva donato, dopo aver contemplato per un istante le spoglie dell’eroe rievocando la propria gloriosa vita di regina: se i troiani non fossero mai arrivati sarebbe stata sicuramente felice. Rinuncia allora ad ogni altro proposito di vendetta, solo augurando che Enea, scorgendo dal mare le fiamme del suo rogo, tragga sinistri presagi. Le ancelle vedono la regina nell’atto di trafiggersi; ecco che la reggia si riempie di clamore e la notizia si diffonde per la città sgomenta.
E’ questo il momento culminante del dramma di Didone, che Virgilio risolve con un breve ma denso monologo. Didone traccia un bilancio della propria vita elevando le grandi imprese compiute : in punto di morte ella riacquista la propria grandezza e ritorna a essere la regina.
Segue un momento di autocommiserazione (v.v 657-658) , dopo il quale Didone dichiara con solenne gravità la sua volontà di morire e si augura che il suo gesto porti sventure a Enea.
“Morirò invendicata” soggiunse, “purchè muoia. È così, è così,
che voglio scendere all’ombre. Veda questo fuoco dal mare
il crudele, della mia morte porti con sé il presagio.” (vv.660-662)
Medea – Seneca – Euripide
Medea, come emerge dai versi di Euripide e di Seneca , è un personaggio complesso, dotato di molteplici sfumature. Donna di grande intelligenza e nipote di Circe, ha saputo conquistare l’amore di Giasone. Dopo aver tradito la famiglia e la patria per permettere a Giasone la conquista del vello d’oro, Medea viene abbandonata dal marito che va nozze con Creusa, la figlia del re di Cinto, Creonte. All’inizio della tragedia la donna non sa conta come vendicarsi, ma sa che lo farà nel modo più atroce. Esiliata , ottiene di rimanere in città ancora un giorno con il pretesto di salutare i suoi figli , e sfrutta questo tempo per ordire la sua trama: sfruttando le arti magiche in cui è maestra , provoca la mote di Creusa e di Creante, quindi uccide i due figlioletti sotto gli occhi di Gasone per infliggere a quest’ultimo il più profondo dei dolori.

A differenza della Medea di Euripide, che presenta una personalità più complessa , lacerata e capace di indagare nelle pieghe della sua stessa passione, la Medea si Seneca è “cristallizzata” sin dal prologo in una disumanità barbara e oscura che si contrappone all’humanitas di Giasone, la cui scelta di sposare Creusa , dettata da opportunismo e ambizione nel modello euripodeo, è qui riscattata dalla volontà di assicurare ai figli un futuro sicuro.

– Medea ode il canto Imeneo e diventa furente. Ella si chiede se Giasone possa veramente abbandonarla con due figli, da sola in terra straniera, ma ciò che più la tormenta è il fatto che l’abbandono di Giasone significherebbe che quest’ultimo non prova alcuna riconoscenza nei confronti di lei, sua sposa, che per salvargli la vita e poter vivere felici insieme ha perpetrato diversi e terribili delitti, arrivando ad uccidere perfino il padre e il fratello. Tuttavia ella non è disposta ad arrendersi, l’odio per Creusa e l’affronto di Giasone la rendono furente, disposta a compiere qualunque atto pur di vendicarsi. Per lei non hanno più valore i delitti compiuti in passato, l’unico suo desiderio è restituire a Giasone la sofferenza e il dolore che egli le ha provocato abbandonandola e decidendo di sposare Creusa. E proprio su di lei intende vendicarsi.
Non riesco ancora a credere a tanta sventura! E Giasone ha potuto fare ciò? Dopo avermi tolto il padre, la patria, il regno, ha potuto avere il coraggio di lasciarmi così sola in una terra straniera? Oh, senza cuore! Ha dunque dimenticato con tanto disprezzo tutto il bene che gli ho fatto, egli che soltanto per mezzo dei miei delitti riuscì a veder vinti il fuoco e il mare? E crede egli dunque che io abbia esaurito la serie dei miei delitti? Incerta, inasprita, non mi sento io forse trascinare dalla mente in delirio ad ogni estremo consiglio che mi possa dare vendetta? Oh, se egli avesse un fratello! Egli ha invece una sposa. Ecco, è questa che io devo colpire!.
(vv.118-126)
– La furia e la rabbia accecano Medea, ormai pronta a compiere l’estremo gesto uccidendo i figli. Tuttavia, ella si ferma, indugia dubbiosa: può uccidere i figli la cui unica colpa è quella di avere Giasone come padre e Medea per madre? In lei si agitano odio e amore, atroci dubbi e vacillanti certezze.

Oh demente mia furia! Questo orrore inaudito, questo barbaro sacrilegio, no, no, non voglio commetterlo! Che cosa hanno fatto questi poveri bimbi? Tutta la loro colpa è quella di avere Giasone per padre e, colpa maggiore, per madre Medea ..Muoiano! Miei non sono. Farli morire? Oh no! Sono miei! Non hanno colpa né macchia.Sono innocenti, sì, si.Oh!.era innocente anche mio fratello! Perché dunque esiti, animo? Perché queste lacrime a rigarti la faccia? Perché l’odio e l’amore mi trascinano or di qua or di là, e questo doppio delirio mi travolge dal dubbio nel dubbio?
(vv.919-928)
– Ormai la vendetta è compiuta, Medea ha ucciso uno dei suoi figli e Giasone è distrutto dal dolore A nulla valgono le sue preghiere e le sue suppliche: Medea ha perso il senno, in preda a follia e rabbia porta a termine la sua vendetta, e come ogni volta, fugge per i cieli, a bordo di un carro trainato da due draghi, lasciando Giasone in lacrime coi corpicini dei figli ormai morti.

No, ma lì dove non vuoi, lì dove molto ti duole, lì, lì, immergerò il mio ferro! Va pure, ora, o superbo, va a cercare il talamo di altre vergini! Abbandona le madri!
(vv.995-997)
Eugène Delacroix, La Furia di Medea
1838
Palais des Beaux-Arts, Lille
Medea viene rappresentata con i due figli dopo essere fuggita da Corinto, dopo aver donato il diadema maledetto alla figlia del Re, poco prima di essere raggiunta. Il pittore la mostra appartata in una grotta col volto allucinato ed i capelli scarmigliati.
L’attenzione del pittore è completamente rivolta ai particolari drammatici della figura di Medea: lo sguardo sconvolto e determinato, i capelli agitati dalla follia e il petto nudo sono tutti espedienti tipici del Romanticismo, così come il tema della Follia d’Amore, da cui Medea è trascinata al punto di togliere la vita ai propri figli.
Delacroix dimostra grande abilità nel giocare sul doppio valore della nudità, come canone classico, ma anche romantico. Qui viene ripresa la nudità del Mito, ma caricata di altri significati, più vicini al Romanticismo: nudità dei bambini che è innocenza, nudità di Medea che è follia, sconvolgimento, morte. Anche altri particolari sono volti ad accentuare le caratteristiche di pathos della scena: l’ombra della caverna, che oscura lo sguardo di Medea.
I volti dei piccoli bambini che di lì a poco verranno uccisi per vendetta, che non capiscono la drammaticità del momento e si divincolano innocenti. Il gioco di abbracci, che dovrebbero essere amorevoli da parte della madre, ed invece imprigionano i figli, mentre una mano, che dovrebbe essere usata per proteggerli, brandisce il pugnale.
Dal punto di vista cromatico, Delacroix sceglie una tavolozza scura per l’ambiente, lasciato intuire aspro e selvaggio. La donna è parzialmente coperta da un panneggio bruno da cui emergono due strisce rosse. Anche in questo caso, il gioco è voluto: la tinta fosca del panneggio è funzionale a mettere in risalto i due lembi scarlatti, che richiamano il colore del sangue che presto sarà versato.
Heroides, X
– Ecco infine ciò che Arianna scrive a Teseo. Il mito narra che Teseo fosse stato inviato a Creta per uccidere il Minotauro e fosse stato aiutato nell’impresa da Arianna, figlia di Minasse e sorella del Minotauro stesso. Teseo, in cambio del suo aiuto, promise di portarla con se ad Atene e sposarla, ma durante il viaggio di ritorno l’abbandona su un’isola.
Arianna abbandonata da Teseo, Angelika Kauffmann Arianna a Nasso, Evelyn De Morgan Luca Giordano, Arianna Abbandonata, 1675 80.
Ho trovato che tutta la stirpe delle belve feroci è più mite di te; non potevo affidarmi ad altri peggio che a te. O Teseo,ciò che leggi ,te lo mando da quella spiaggia da cui le vele portaron via senza me la tua nave,e ove il mio sonno mi tradì,tu mi tradisti,insidiando a me perfidamente mentre dormivo.
Era il tempo che la terra comincia a coprirsi di cristallina pruina e gli uccelli cinguettano nascosti tra le frondi.Tra la veglia e il sonno,languida nel mio torpore,semisupina,io stesi le mani per toccar Teseo;ma non c’era nessuno!Ritrassi le mani,le protesi di nuovo,agitai le braccia nel letto;non c’era nessuno!
Il terrore mi destò;sbigottita mi alzai;mi precipitai fuori dal vedovo letto;ed ecco,il mio seno risonò dei colpi delle mie mani,e i capelli, arruffati com’eran dal sonno,furono devastati.
C’era la luna;guardo s’io veda qualche altra cosa oltre le rive;gli occhi non riescono a scorgere altro che rive.
(vv.1-18)
E di la col mio sguardo misuro per vasto tratto l’alto mare. E di là(anche i venti mi furon sfavorevoli!)vidi le vele tutte gonfiate dall’impetuoso Noto. Vidi,o credetti di aver veduto?Ma rimasi semiviva e più fredda che ghiaccio.
Il dolore non mi lascia però languire a lungo;me ne riscuoto,e chiamo Teseo ad altissima voce:
<Dove fuggi?Ritorna,Teseo scellerato!Rivolgi la tua nave;essa non ha tutti i suoi naviganti!>.
Così dissi,e a ciò che non poteva la voce supplivo con le grida;e alle mie parole si aggiungevano le percosse. E,pel caso che tu non udissi le mie mani agitate in largo fecero segnali perché vedere almeno tu mi potessi; e issai veli bianchi su una lunga pertica,che mi ricordassero a quelli che m’avevano dimenticata.
(vv.27-40)
Tuttavia il fato fu generoso con lei: salvata dal dio Dioniso, che la prende in moglie, il dio le regala un diadema che, tramutato in costellazione, brillerà in eterno nel cielo.
La figura di Arianna ha ispirato molti artisti, celebri pittori, poeti, musicisti, che con le loro opere hanno voluto esaltare il valore di questa donna.
Trionfo di Bacco e Arianna, Annibale CarracciBacco e Arianna, Tiziano